Tra i giovani d’oggi la depressione dilaga: si presenta in forme mascherate, si nasconde così bene da trasformarsi a volte, almeno in apparenza, nel suo contrario. E’ una cosa strana. La depressione c’è sempre stata ma di solito accompagnava altre fasi della vita, come quella del declino, non la gioventù. E così, celata da visibili comportamenti che segnalano le fragilità emotive dei nostri ragazzi (abuso di alcol e sostanze, disturbi del comportamento alimentare, dipendenza dalla tecnologia e dalla rete, shopping compulsivo e molto altro), si nasconde un umore instabile, fatto di facili entusiasmi e successive delusioni.
Ma da dove arriva questa depressione?
Possiamo pensare che provenga da una mancanza della capacità di desiderare, dalla fatica di immaginare ciò che potrebbe rispondere alle nostre aspirazioni o, ancora meglio, dalla difficoltà di accedere ai nostri sogni. Quando manca il desiderio la vita si spegne, l’energia scende.
E come mai manca il desiderio?
Forse perché il senso della mancanza si è trasformato in senso di vuoto. La mancanza, stoffa da cui prende forma il desiderio, è alla base di ogni espressione vitale e creativa, diventa possibilità di inventare, creare. Desidero proprio quello che mi manca. Oggi più che a forme di espressione del desiderio siamo di fronte a modi di riempire il vuoto che è andato a sostituire la mancanza. Proviamo a pensare alle persone che soffrono di problematiche del comportamento alimentare come obesità e bulimia, che con le loro abbuffate incontrollabili esprimono la necessità di riempire il vuoto, così come le persone che sono malate di anoressia che invece sentono la necessità di sentire dentro di sé tutto il vuoto possibile. Questi meccanismi sono presenti negli abusi di alcol e sostanze, nella ludopatia, nella continua connessione alla rete e in tutte le forme di dipendenza.
Come mai il senso della mancanza si è trasformato in senso di vuoto?
Oggi sembra che si possa trovare felicità e soddisfazione nel consumo degli oggetti, come se quest’ultimi potessero guarire ed essere la soluzione ad ogni dolore. L’oggetto nuovo presentato dal mercato sembra essere la risposta ad ogni fatica. Peccato che l’oggetto non diventi mai un oggetto capace di soddisfare, anzi procura nuovi vuoti che non riempiono ma generano buchi. La continua offerta degli oggetti crea nuovi vuoti che rinnovano il senso di vuoto. Gli economisti parlano di obsolescenza accelerata: gli oggetti perdono il loro fascino in pochissimo tempo. Anche le relazioni tra gli esseri umani spesso vengono regolate dalle stesse regole che regolano gli oggetti: rimanere fedele allo stesso oggetto è una cosa difficile da pensare, si richiede un ricambio continuo dell’oggetto. Anche l’amore ha scadenza, il tempo dell’amore assomiglia al tempo della merce, quindi scade. Il mito è che la soddisfazione sia nel nuovo: il nuovo partner, il nuovo oggetto, il nuovo che ancora non c’è. Quindi è questo il gioco: un oggetto che crediamo ci riempia di soddisfazione invece ci svuota e ci rende dipendenti dagli oggetti. La trasformazione della mancanza in vuoto crea una specie di falso amore: il tossicodipendente si fidanza con la cocaina, il ragazzino dipendente dalla rete fa coppia con il suo smartphone, la persona obesa o bulimica sposa il cibo, l’alcolista si accoppia con la bottiglia, si creano allora legami con partner non umani che prendono il posto dei partner umani. Gli oggetti (cocaina, internet, cibo, alcol, slot machines e tanto altro) non si spostano, non se ne vanno, non parlano, ma si controllano molto meglio. Con le persone è più complicato, non possiamo esercitare il diritto di proprietà che abbiamo sugli oggetti. E allora una separazione precoce, un’angoscia di abbandono o una perdita improvvisa ci porta a pensare di rimpiazzare l’altro significativo perduto con un oggetto che, siamo sicuri, non ci lascerà mai. L’adolescenza diventa allora un bivio importante: mi confronto con l’altro, il diverso, ossia il gruppo dei pari, l’altro sesso, creo relazioni con persone costruendo dei legami che diventano fonte di curiosità, eccitazione ma anche paura e timore oppure non me la sento? La dipendenza dall’oggetto salva dalla dipendenza più rischiosa delle persone, previene la ferita, la separazione, l’abbandono. L’oggetto è un balsamo, un analgesico, un antidolorifico, qualcosa che anestetizza emozioni e sentimenti, è una presenza rassicurante, un antidoto all’angoscia. La dipendenza da cibo, rete, sostanze, gioco d’azzardo è un modo per trattare l’angoscia che nasce dalla naturale e necessaria interdipendenza dall’altro.
Come si curano queste patologie dell’oggetto?
Il primo passo è ridare valore alla parola grazie alla psicoterapia: il consumismo distrugge la parola attraverso la potenza dell’oggetto. Spesso i pazienti ce lo dicono: cosa vengo a fare qui, si parla e basta, ma io voglio sostanza. Le parole sono fumo, sono aria fritta. Il terapeuta ascolta, non giudica, non prescrive penitenze, non valuta, non dice che cosa bisogna fare ma fa il testimone, mette insieme i pezzi. Grazie alle parole si può staccare il soggetto dall’oggetto, si può creare una separazione grazie alla relazione terapeutica che prende forma attraverso il transfert, capace di creare uno spazio insaturo che fa nascere un desiderio altro, desiderio di qualcosa di diverso dall’essere magra, di bere o di sprofondarsi nel pc.